Adele
- Cristina Costantini
- Jul 27
- 3 min read

Sei il mio passerotto.
Sento ancora l’abbraccio di voce e il fresco calore del riparo in cui è stato possibile far ritorno ad ogni svolta di vita, quando il cuore rimaneva sospeso e la mente pungeva la pelle con domande e perplessità.
Il merito era di Adele, la prozia che ha saputo accorciare le distanze dell’albero genealogico, facendosi zia, o seconda nonna, forse persino un’altra mamma, a dispetto del tempo e delle generazioni.
Libera e felice, fiera e indipendente. Così mi è apparsa fin dalla mia infanzia, quando mi portava in un arcobaleno di figure con i suoi racconti e per le strade alberate di Chiavari dandomi la mano, stringendomi ad ogni attraversamento, fino al mare, dove ancora si incrociano i nostri sguardi.
Inventiva e ironica, ricuciva scorci di vita, rattoppava i dolori con la stoffa della gratitudine, sempre, così che tutto apparisse bello, grande, fiabesco.
Mi avvolgeva con i suoi motti, i suoi modi di dire unici, un misto di parole e sapori che entravano dentro attraverso tutti i sensi, sublimavano i gusti e si ficcavano lì, al centro del petto, come un nucleo di esplosiva allegria. E, infatti, ridevo con gli occhi lucidi e colorati di giallo, tanto e a lungo, senza sosta, piena di bellezza e di buonumore. Una riserva immensa e non ancora esaurita, alla quale ho attinto poi, quando la salita si è fatta più dura.
Mi preparava squisite prelibatezze e quella cima genovese che era una gioia e un travaglio perché voleva fosse la più ricca e sostanziosa e perciò caricava la sacca di carne con un ripieno autogestito, oltre le dosi consigliate, imponendosi, dopo, di vegliare sulla pentola per tutto il tempo dell’ebollizione per paura che la creatura di colpo scoppiasse. Io ero con lei. A misurare i minuti e le ore.
Giocavamo con bambole e pupazzi, con i puzzle che non sopportava, a Monopoli e all’allegro chirurgo, tra giri di segnaposti (io il fungo, lei la candela) e nasi rossi che suonavano, a carte fino alla fine, passando per briscole, scope, canaste, scale 40, PeppaTence e solitari da interrogare. Noi avversarie amiche; sullo sfondo il grande pino marittimo che dalla finestra ci guardava e forse naturalmente ci benediva per il bene che tra noi si costituiva. Ne era piena l’aria.
Mi sorprendeva e mi ascoltava; si faceva trovare davanti al Liceo d’improvviso per augurarmi buon compleanno; mi chiamava ad ogni ora per dirmi “stai sicura, sei in una botte di ferro”. Sì, perché c’era lei con le sue infinite preghiere, vere, autentiche e la sua fede pura, senza resa, a custodire i giorni della mia vita.
Chicca, mi chiamavi con voce adamantina e all’ultimo, quando non parlavi più, con la forza del tuo sguardo che valeva ricordo e supplica perché sempre nella vita intonassi il ritornello che mi hai insegnato quando avevo tre anni “canta che ti passa la malinconia, viva l’allegria, viva il buonumor!”.
Mi hai stretta a te con una presa d’amore più forte del pensabile, tutta racchiusa nello sforzo dell’unica mano che alla fine riuscivi a muovere. Come una leonessa, al pari del tuo segno zodiacale di cui eri orgogliosa. Vita di vita, speranza di speranza.
Hai raggiunto i tuoi - così mi dicevi, rivedrò mio padre e nonna Maria (che era per me bisnonna, ma come per te, anche per lei avevi ammezzato le distanze) - il 27 luglio di 7 anni fa.
Mentre io, non per caso, ero a Delfi, proprio vicino all’omphalos, ombelico della Terra, centro dell’Universo.
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