TRA COVID E POST-COVID
Abitiamo un tempo spaziato.
In modo tragicamente beffardo, il Covid ha sospeso il nostro respiro, al pari del punto che la sua estemporanea apparizione ha posto nella trama sequenziale della nostra storia. Un ritmo accidentale ha scandito la metrica del quotidiano. Il linguaggio si è ricomposto nelle maglie di una nuova grammatica topografica e percettiva.
Una triade di parole torna con ossessiva ripetizione nella sintassi colloquiale e normativa: distanza, contatto, contagio. Ciascuna di esse deriva il proprio significato dall’unione di un prefisso (dis-; con-) e di un sostantivo; tutte misurano la qualità di una (im)possibile relazione. Dolorosamente, esse intonano un coro monodico, che canta, assordante, il bene della separazione.
Ultimamente, il dis- vince sul con-. Se la fisicità dell’incontro contiene in sé il germe di una potenziale infezione, se, dunque, il contatto ora vale nella forma di una sostanziale contaminazione, è la ragione del distacco a prevalere. Ogni percezione sensoriale – vista, udito, tatto – vive trasformata in una inedita estetica della distanza. La permeabilità tra un ‘dentro’ ed un ‘fuori’ è decisa ed anche l’indeterminatezza del ‘fuori’ viene a solidificarsi in un perimetrato confinamento.
Stiamo, rappresi in un moto virtuale di pensieri e parole.
Neppure la fine della vita finisce e vince l’allontanamento, anzi lo rende abissalmente perturbante.
Un altro ‘con’ è sacrificato nella negazione del conforto.
Soli nel morire, si è resi distanti dalla vita quando è frontale l’incontro con la morte.
Abbiamo conosciuto ogni faccia della distanza. Ne portiamo senso e sapore su pelle e membra: l’abbiamo sperimentata; l’abbiamo catturata nel fondo del nostro sguardo.
Avendone, gustativamente, colto la nota amara, abbiamo ora la libertà di improntare l’estetica del futuro ad un sapore diverso.
È questione umana, prima ancora che politica; un impegno richiesto a ciascuno per un senso di responsabilità verso quanti nella distanza hanno chiuso la propria storia.
C’è una ‘eccezione’ alla distanza che chiede di essere vissuta, una ‘presa dal fuori’ verso una rinnovata esperienza di solidarietà e condivisione.
Se la distanza non si è quantificata estensivamente in lontananza, ma, attraverso il suo sovraccarico ontologico, ha fatto sentire il limite della solitudine, la sostanza dell’interrelazione può tornare ad essere compresa con diversa consapevolezza.
Il tempo del munus, di quel dono che sta alla base di ogni comunità, è giunto prima di una possibile, generale immunizzazione.
Saperlo vivere sarà la cicatrice benefica che il Covid ha lasciato sul corpo dell’umanità.
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