I miei anni Settanta sono iniziati in una mattina di primavera.
Cartella squadrata in spalla, si contavano i passi da casa a scuola.
L'aria era materica, aveva consistenza, un po' come tutto allora.
Dovevo ancora compiere sette anni.
Su per le narici uno strano miscuglio di temperature e sapori : il caldo morbido del plumcake domestico inzuppato nel caffelatte; il freddo ferroso dell'inchiostro Pelikan; il dolce-acidulo del primo cancellino (monopunta, non riscrivibile); il fiorito dell'aria che tornava a scaldarsi.
Torino era ancora grigia, plumbea a tratti. La amavo comunque, anche se i colori erano monocromo, o al limite seppia, raramente pastello. Era la città che, in cartolina, protendeva corpo e guglia della Mole sulla linea dell'arco alpino. Uno sposalizio geometrico perfetto, un incontro di linee e forme che la maestra spiegava, ma che qui diventavano simbolo.
Era già chiaro quale fosse il significato - non solo letterale - di "Crocetta", "centro", "collina", "lungo Po'. Si era piccoli, eppure socialmente consapevoli (a differenza di quanto accade prevalentemente oggi, quando anche i grandi sembrano aver smarrito identità e memoria). Era maggio, uno dei miei mesi preferiti. Portava all'estate, alla mia festa, ai miei nonni, alla mia zia incantata di vita, a Serravalle e a Chiavari, al mondo che conoscevo in ogni dettaglio per averlo esplorato ed interrogato senza sosta. Ed ogni volta mi era giunta una risposta, quella che è ancora qui, legata a tutte le altre, a 43 anni di distanza.
La mattina in cui i miei anni Settanta ebbero inizio, camminavo nell'ombra del passo di mamma, nella sua infaticabile corsa al servizio della famiglia e dei molti altri che in lei avevano trovato rifugio. Giravo intorno, con sguardo gioiosamente nostalgico, perso tra le ciglia e il marrone verde dell'iride a riflettere il mondo, ed è come se mi vedessi ora, nei miei occhi, minuscolo punto-bambina che, tra le tante cose lasciate, proprio questo ossimoro visivo si è, invece, ostinata a conservare.
Case grigie, verdi e bianche, gradazioni di clinker che dettavano la moda; poi l'asilo, con i giochi nel cortile delle corse e delle cadute; la "strada chiusa", come la chiamavamo, aperta solo al traffico dei nostri pattini e delle nostre biciclette; quindi l'angolo e via Tofane: un isolato ed era ingresso a scuola.
Poteva essere un giorno tranquillo; era, invece, il 10 maggio; il 10 maggio dell'inizio dei miei anni Settanta; il 10 maggio 1978. Tutto era caotico; i colleghi di mamma erano riuniti, dietro il cancello appena aperto, tesi e spaventati. Non era tempo di saluti e pizzicotti sulla guancia.
Era quella sagoma ritrovata, che avevo visto al telegiornale della sera prima, a scandire il tempo. Ne avevo percepito a malapena la forma, prima di essere portata in camera.
Avevo chiesto. Era tardi; la promessa del racconto rinviata al domani.
Il domani s'era fatto oggi.
Chiusa nel grembiule blu, cercavo di riprodurre mentalmente l'immagine, ma era più forte il suono, la voce del cronista e, ora, il parlare di tutti con tutti.
Con gli occhi più grandi dei grandi, puntai la mamma perché sciogliesse quel che era rimasto sospeso.
Nessuno (mi sembrò) aveva superato il volume della mia domanda.
Lei rispose, flebile nella sua imperiosa dignità: "È Aldo Moro; si tratta di Aldo Moro".
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