“L’uomo nella macchina", dissi senza domandare. Un cenno, in difetto di risposta. Nel silenzio stava tutto. Il silenzio imperioso di mamma. Per semplicità infantile, quel ghiaccio primaverile s’era addensato per un uomo, più che per un professore, più che per un politico. È così che i piccoli vincono le aberrazioni della storia: c’è saggezza nell’ingenuità. Aldo Moro. Un nome facile da ricordare, più di quella linea curva - pensavo, sforzandomi - e di quel viso ripiegato che avevo intravisto sullo schermo della Brionvega rossa. Colpo del destino: rossa come la Renault 4, anche se scoprii la coincidenza soltanto dopo, perché le immagini erano entrate in retina in bianco e nero. Ancora più dure, ancora più gravi. La storia si stava svolgendo, eppure aveva già per me l’oggettiva neutralità del documentario. La sera si vedeva il telegiornale, cifra comune di un’Italia diversa, costante senza stagioni che rimbalzava di finestra in finestra. Nonni, genitori, figli: generazioni unite di fronte alla notizia, anche se prima s’era litigato, anche se si era in posti diversi.
Ero allo scadere del mio sesto anno: ostinatamente curiosa, docilmente obbediente. Così, quelle scene sul vetro ricurvo sono rimaste conficcate in mezzo ai due poli del mio carattere in formazione. Volevo restare per capire quello che i miei occhi avevano letto come sgomento; non potevo contraddire la mano di papà, che mi accompagnava in camera tra libri e peluche. Poco dopo, il buio, un nero scuro contro cui proiettare figure e sogni, contorni di fantasia mentre la realtà era diventata tragedia. Me lo confermava ora la bocca serrata di mamma, la stessa bocca che mi aveva spiegato tutto da sempre. Invece, il mondo parlava, gridava perché, sì, il ‘bianco-e-nero’ s’era tinto di rosso.
"Ucciso!". Tutti di fronte alla morte, anche se i fiori stavano sbocciando. In cortile c’era un insolito ciliegio giapponese che, di quei tempi, si trasformava in una densa nuvola rosa, maestosamente semplice e meravigliosamente preziosa. Dalla finestra dell'aula lo osservavo, come ogni mattina, ma quel 10 maggio cercavo altro, oltre la forma e il colore, volevo sentire il velluto soffice dei petali per dirmi che c’è levità nella vita oltre ogni caduta. Da allora, da quell’inizio dei miei anni 70, non ho mai smesso di sperare, anche di fronte al male, al tormento, alla chiacchiera facile, al guidizio sconsiderato. È rimasto quel tattile senso di delicatezza che passava attraverso i vetri del terzo piano. In più di una occasione, negli anni a venire, sono state quelle corolle, così morbide nella mia mente, a darmi pace.
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