D’improvviso arrivava il silenzio.
Nella casa dei giochi, delle corse mattutine, dei Natali assiepati di parenti, dei lettini rossi su cui arrampicarsi per far volare i sogni più in alto, tutto si fermava al chiudersi rituale di una porta che sigillava nell’aria l’ultimo suono.
Dietro quel legno intarsiato di vetro, tutti noi (nonni e genitori, figli e nipoti, zie e sorelle, mariti e cognati, vivi e morti, nessuno escluso) entravamo in storia. Eravamo trasformati in personaggi di un racconto che prendeva a scorrere sulla carta quadrettata di volumi in brossura, disinvoltamente grandi, eppure ogni volta insufficienti a contenere i nostri giorni e le nostre notti. Chiaro e scuro precipitavano sulla punta scheggiata di un pennino Pelikan, antico ago metallico scelto per cucire tra loro fatti e volti, dolore e ilarità, speranza e delusione. Come un bisturi docile, suturava lacrime e sorrisi e ogni altro contrasto di cui si nutre la vita, fin dal concepimento, rimosso l’oscuro, placato il sordido. L’inchiostro tracciava di blu la cellulosa, ma quei segni respiravano di tutte le sfumature presenti in tavolozza e poi disciolte nelle nostre esistenze di adulti e bambini.
C’era energia in quel gesto, un eccesso di amore, forse, che della scrittura faceva sacramento. I nodi famigliari erano dipanati e noi, al contrario, rilegati in libro. Per sempre.
C’era onestà in quella liturgia, una forma di severità disincantata e altruista che nominava il mondo in difetto di eufemismi. Così, noi ci trovavamo spogliati, come nudi riflessi corporei di fronte alle nostre presunte verità.
Per i grandi, quello era un modo strano di impiegare il tempo, una delle militaresche bizzarrie del nonno, un tentativo di fare ordine anche quando l’ordine era perduto. Per me, piccola impenitente, quei libri enormi erano testi sacri capaci di dire, in ogni pagina, chi io autenticamente fossi. Li guardavo con rispetto, li annusavo con soggezione. Aspettavo l’ora in cui la porta veniva a separare le azioni dal loro nobile resoconto, mentre un cassetto di legno si apriva per congiungere verticalmente la nostra famiglia tutta.
In basso, in uno spazio alto e stretto della stessa scrivania, riposavano gli altri diari, un composto di ritagli di quotidiani e commenti a margine, pagine scritte in immagini in cui Moro parlava a Berlinguer, papa Wojtyła interrogava dogmi, Mario Rigoni Stern e Giovanni Arpino vincevano il Campiello. Un corredo pubblico per il nostro guscio privato.
Da oltre trent’anni il cappuccio d’argento ha sigillato la penna delle nostre vite. Mi chiedo spesso come avresti letto questo tempo, nonno, e forse un po’ lo so.
In silenzio, ancora, rimango seduta sulle tue ginocchia e sento che la tua carezza ha asciugato ogni mia lacrima.
Oggi, 1 maggio 2021, come tu, sono certa, avresti iniziato il foglio nuovo.
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