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Writer's pictureCristina Costantini

Per me


2 giugno 1971. Clinica Salus – Torino centro.


Buio liquido. Poi un guizzo, un movimento repentino, un accenno di capriola.

Spalla, non testa.

Forse una battuta d’arresto? No, il principio di una nuova esistenza.

Sono nata così, tra gioia e sussulto. Il primo insegnamento mi ha tenuta a battesimo sulla soglia dei due mondi, tra placenta e atmosfera: nelle potenzialità di una perdita viaggia nascosta la forza di un diverso inizio. Un sacramento laico che mi ha salvata un’infinità di volte, ripetutamente, sempre. Era un mercoledì, come oggi. La festa nazionale della Repubblica s’era trasformata in festa privata di mamma e papà.


Da allora 5 decine di anni vissuti, mezzo secolo di storia sbobinata tra fatti e parole.

Negli occhi allo specchio tutto è saldato, microimmagini composte di carne e luce, lacrime e velature.


Sono grata all’infanzia, terra di scoperte e serena semplicità, in cui i prati confinano con gli scogli, i rami gemmano foglie di mare, le strade cittadine sanno di iodio e profumi campestri, il sole tuona e le stelle si fanno gocce di pioggia. Ci sono gli abbracci pieni di nonna e i racconti bizzarri di zia, il mio piacevole abbandono unitamente alla mia energica ilarità. Ancora oggi è la sacca della mia resistenza, alla quale attingere quando le marce a disposizione non bastano per procedere in salita. Quanto mi sembrava normale e ovviamente accessibile a chiunque si è rivelato un privilegio del tutto eccezionale, un dono giunto in anticipo per tutti i compleanni a venire.


Ho amato Torino, che ho conosciuto in ogni gradazione di luce e vitalità. Perno della mia crescita, luogo della mia formazione, nodo intricato di certezze e dubbi, Torino compare ad ogni mia alba con i suoi multiformi sapori: la Torino ferro e acciaio, di bulloni e preti operai; la Torino luce e verde, terra e fiume; la Torino opaca e dal cielo blu porcellana; la Torino magica e quella scomoda; la Torino nobile e chiusa e quella che vive di racconto popolare; la Torino Centro-Mirafiori-Lingotto e quella Po-Dora; la Torino intellettuale che sa pensare nelle sere incantate del Quadrilatero; la Torino controversa dei Muri e quella infinita tra Piazza Vittorio e Gran Madre; la Torino dei ponti e quella dei viali; la Torino dei Santuari e la Torino Crocetta-Collina; la Torino della Mole e di Fetta di polenta; la Torino delle Biblioteche e dei Teatri, dei campi di gioco e delle strade abbandonate. A stento trattengo quello che occhi e cuore mi restituiscono. Sono diventata forte tra Via Cardinal Fossati e Via Alfieri, tra casa e studio, dopo aver assaggiato fette consistenti di felicità tra Via Parini (porta del mio Liceo) e via S. Ottavio (cancellata aperta su Palazzo Nuovo). Per queste vie, in questi spazi ho dato tutto quanto era nelle mie possibilità, senza resa, anche quando la fatica si è fatta sentire, anche quando sarebbe bastato molto di meno. Forse, anche per questo, oltre all’amore che bene conoscono, i miei genitori potranno ricordarmi, ovunque le nostre vite un giorno continueranno.


Ho letto il mio entusiasmo. L’ho trovato in ogni parola che ho scritto con inchiostri e tastiere, ad ogni ora e in ogni dove, tra treni e aerei, in risacca e in tempesta, di casa in casa, in mille stanze d’albergo. L’ho sempre custodito, specie contro le aggressioni del mondo, contro i meschini tentativi di erosione, contro i falsi detrattori. È tempo mal giocato pensare di spegnere quanto per sua natura si incendierà di più alta fiamma. E così è stato, ogni volta, ripetendo quello che il giorno della mia nascita mi aveva offerto in dote. Sono, perciò, sincera se dico di aver amato ogni ora della mia vita e di aver agito in generosità. Non ho mai atteso che i destinatari dei miei atti ne cogliessero il senso, intimo e profondo; spetta a ciascuno non lasciare appassire quanto di più prezioso si può avere accanto. In modo altrettanto autentico posso dire che non ho mai trovato riparo nella convenzione, anzi l’ho allontanata e rifiutata quando la si è chiamata per farne immobile copertura sopra un vuoto di ghiaccio. Gesti semplici e senza nome, in assenza di forme, liberano la verità, con la sua apparente follia, dalla camicia forzata preparata su misura da un fatuo – talvolta vigliacco – perbenismo.


La mia famiglia è stata la roccia di approdo che ha garantito il ritorno ad ogni viaggio, un forziere di bene inesauribile, una storia incarnata di onestà. Grazie a loro, per loro so che l’infinito esiste e che la fede non è azzardo. Questa serena convinzione ha dato valore ad ogni mia lacrima, ha concesso riposo ad ogni mia intemperanza, ha nobilitato nel silenzio parole spese senza ragione di cuore.


Il mio lavoro, tra Foro e Università, è stato e sarà motivo di ispirazione, liberamente scelto, caparbiamente seguito. Lo amo, davvero.


2 giugno 2021 – Corso Vannucci, Perugia centro.

Con il sorriso che ancora mi viene dall’infanzia, attraverso le strade di fibra che legano Serravalle, Chiavari e Bardonecchia, alzo il calice e brindo.

Guardo in profondità. La finestra della sala da pranzo è aperta. Di fronte, nella pupilla della mia anima, non vi sono più confini e la terra vive innamorata del suo cielo. Il regalo più bello, sorprendente quanto la nascita, per i miei 50 anni.


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